Guarda le foto dell'inaugurazione!
Il progetto M.A.C.I.S.T. “Museo d’Arte Contemporanea Internazionale Senza Tendenze” nasce da un’idea del Maesto Omar Ronda, dalla sensibilità di alcuni collezionisti e molti artisti di fama internazionale che hanno deciso di donare e di mettere a disposizione le proprie opere con il fine di sostenere le attività di prevenzione, cura e ricerca della Fondazione Edo ed Elvo Tempia, da oltre 34 anni impegnata nella lotta contro i tumori.
La direzione artistica e la Presidenza sono affidate al Maestro Omar Ronda, insieme al Prof. Philippe Daverio, Presidente del Comitato d'Onore.
Lo spazio museale sarà accessibile a tutti, liberamente e gratuitamente nei giorni di sabato e domenica dalle ore 15 alle 19,30 esclusi luglio e agosto.
I visitatori potranno ammirare in esposizioni permanenti e temporanee l'Arte contemporanea nelle sue migliori espressioni senza particolari tendenze e appartenenze se non la qualità e il piacere di condividere eticamente la sfida del M.A.C.I.S.T. Museum: ammirare l'Arte, sostenendo la lotta contro il cancro.
Un dialogo immaginario fra le enigmatiche sculture lignee dell’arte africana tradizionale, a cavallo tra Ottocento e Novecento; opere pittoriche e scultoree dei maggiori artisti africani contemporanei, una quarantina di sculture e una quindicina di pitture su tela: eleganti maschere in legno, statue di eroi e divinità, affascinanti feticci e pregevoli acrilici su tela.
Questi gli aspetti principali della mostra Arte Africana, dal tradizionale al contemporaneo di scena al M.A.C.I.S.T. Museum di Biella dal 16 settembre al 29 ottobre. In Arte Africana saranno illustrati i grandi temi dell’arte africana tradizionale, in un sottile equilibrio tra aspetto etnografico e componente estetico - formale. Le sculture di arte africana tradizionale presenti fanno parte della ricca collezione dei curatori della mostra: Anna Alberghina e Bruno Albertino, medici torinesi, infaticabili viaggiatori, noti studiosi e collezionisti d’arte africana. Gli artisti africani contemporanei provengono dall’Africa Orientale, in particolare da Tanzania e Kenya: George Lilanga, Omari Saidi Adam, Mustafa Yusufu, Issa Saidi Mitole, Maurus Michael Malikita, Rubuni Rashidi, Hasani Thabiti Mchisa, Mohamed Charinda, Cartoon Joseph. Una piccola ma interessante selezione di un vivace movimento artistico in continua espansione.
L’arte africana, proprio nell’accordo profondo tra percezione universale e realizzazione particolare, ha trovato la sua sublimazione in una visione non solo etnografica ma soprattutto estetico - formale. L’ingresso al Metropolitan Museum of Modern Art di New York e al Pavillon des Sessions del Louvre di Parigi nel 2000, ha segnato la definitiva consacrazione dell’arte africana nel mondo occidentale. Essa è caratterizzata da visione plastica e percezione immediata dello spazio. In particolare, la maschera è l’estasi immobile del volto, una fissità che esprime un’estrema e pura espressione liberata da ogni contestualizzazione e condizionamento.
Il Museo d’Arte Contemporanea Internazionale Senza Tendenze nasce da un’idea del maestro Omar Ronda, dalla sensibilità di alcuni collezionisti e molti artisti di fama internazionale che hanno deciso di donare e di mettere a disposizione le proprie opere con il fine di sostenere le attività di prevenzione, cura e ricerca della Fondazione Edo ed Elvo Tempia, da ben 36 anni impegnata nella lotta contro i tumori.
Il nome di Robert Rauschenberg viene solitamente e giustamente accostato a quello di Jasper Johns quando si vogliano identificare i personaggi più determinanti per lo sviluppo dell'arte americana degli ultimi 50 anni, dato che a loro si deve il passaggio dal movimento New Dada, fenomeno storico ben etichettato importato dalla vecchia Europa, ad una nuova realtà culturale più specificatamente americana, vivificata da nuovi stimoli e percorsa da problematiche autonome, alla ricerca di nuovi percorsi stilistici: dalla poetica di questi due artisti deriverà la Pop Art e verrà segnata tutta l'arte americana futura.
Le composizioni di Rauschenberg sono, rispetto a quelle di Johns, più complesse e meno elegiache, con un grappolo di punti di interesse che invade totalmente la tela, esemplificazione di un concetto di abbondanza che si riferisce sia agli stimoli che l'ambiente urbano riversa sugli abitanti, sia all'erogazione industriale di beni materiali ed al conseguente spreco, il tutto espresso in termini di una espansiva "sensualità documentaristica", per usare una definizione del critico inglese Lawrence Alloway.
Le sue opere, costruite con la tecnica dell'assemblage, con oggetti comuni o spezzoni di oggetti recuperati (objet trouvé) ed immersi in una dimensione artistica, secondo il concetto dada del ready-made, si collocano a metà tra arte e vita, tra pittura e collage, sono raccolte di memorie del quotidiano, assemblate e riconciliate in un gesto che ha qualcosa di rituale e che le converte in forma estetica: l'unica cosa che può fare l'artista è solo questa possibile ricomposizione della realtà urbana mercificata ed industrializzata, di cui anche l'uomo fa parte.
Determinante per la formazione di Rauschenberg fu il contatto con il musicista John Cage, che gli trasmise il concetto di "azione nel dislivello tra arte e vita", così come una tela di Rauschenberg, tutta completamente bianca, vuota, pronta a raccogliere ombre o riflessi, suggerì a Cage una delle sue opere più dirompenti, 4'33" di silenzio, mentre Morton Feldman, da una tela di Rauschenberg, tutta nera, con un foglio di giornale incorporato, anch'esso dipinto di nero, intuì come per un'illuminazione la libertà nell'assimilazione di materiali diversi, in quella che non vuol essere una dicotomia totale "tra l'arte e la vita, ma una via di mezzo".
Sono sicuramente presenti in Rauschenberg elementi derivati dall'Espressionismo astratto, specie in alcune opere come "Interview" e "Retroactive 1", movimento dal quale egli si distingue ben presto per l'utilizzo di una figurazione che mantiene all'immagine un suo valore, un'identità, un'autenticità che non hanno nulla a che fare con il quadro.
Le opere di Rauschenberg pongono la critica davanti ad un dilemma: così infatti osserva il critico George Sorley Whittet, nel 1964, sulla rivista "Studio International": "L'assenza dell'arte non aiuta in nessun modo le nostre reazioni di fronte alla vita. Quella che Rauschenberg ci offre è la vita allo stato puro; sta a noi trovarvi l'arte, da soli."
Concetto a cui fa eco Andrew Forge quando, nel 1970, afferma: "La vita ha penetrato la sua opera in lungo e in largo, e ogni sua opera, più che imporci una definizione di arte, scaturisce da una ricerca di tutti i possibili contesti nei quali può verificarsi il fatto artistico."
L'indagine di Rauschenberg non coinvolge esclusivamente la società moderna, egli non si limita ad applicare i suoi salti associativi a materiali contemporanei e popolari, egli riflette anche sulla cultura del passato e produce una serie di disegni ad illustrazione dell'Inferno di Dante Alighieri, di cui sottolinea la perdurante attualità trasponendo la sua poetica alla realtà moderna mediante un riferimento diretto del suo poema alle cose che ci circondano.
Robert Rauschenberg fu certamente un grande sperimentatore, ma al di là di opere di traumatizzante rottura, come il celebre "Monogram" che presenta come soggetto una capra imbalsamata, con un destabilizzante salto di sensibilità che provoca nello spettatore un vero e proprio brivido, in generale Rauschenberg, con atteggiamento veramente pionieristico, indaga il rapporto dell'uomo con la società urbana e tecnologica, con l'oggetto di consumo di cui muta il valore e il senso corrente, per arrivare, con un'azione mirata, alla coscienza del fruitore dell'oggetto: nascono così le sue esperienze polimaterialistiche, i combine-painting, le sue opere di collage, di riciclaggio, di riutilizzo del prodotto di scarto che viene in un certo qual modo "redento" dall'opera dell'artista in un rito che Edward Lucie-Smith definisce "iconico-celebrativo" dei miti consumistici.
L'importanza dell'opera di Rauschenberg sta nell'aver elevato, con i suoi assemblages, i materiali dal livello delle relazioni puramente formali a quello della poesia associazionale, in sostanziale opposizione a ciò che stava attuando l'Espressionismo astratto, tendente invece ad assorbire il soggetto nel mezzo espressivo, che diveniva così esso stesso soggetto.
Utilizzando un modo espressivo quale l'assemblage, che di per sè tende ad escludere l'idea di uno stile, Rauschenberg riesce invece ad inventare un suo riconoscibilissimo linguaggio formale che sarà pregno di spunti ed influenze per le generazioni che seguiranno, prima di tutte la generazione degli artisti pop.
Alla fine degli Anni Sessanta fa parte della Galleria Schwarz di Milano che annovera fra i suoi artisti Duchamp, Picabia, Schwitters, Arman, Baj.
A Milano ha luogo da Schwarz una mostra personale presentata da Pierre Restany che resterà un critico amico. La mostra ha il titolo “Macchine e oggetti condizionali” e rappresenta in pratica l’inizio del movimento che sarà poi l’Arte Povera. All’inaugurazione infatti è presente Germano Celant con cui Nespolo parteciperà ad una serie di mostre che sono le prime mostre del gruppo.
La mostra più importante si terrà a Roma intitolata “Nove per un percorso!”. Con Enrico Baj da quegli anni inizia una lunga amicizia che durerà per sempre. Con Baj Nespolo terrà mostre, conferenze, presenze in Europa e negli Stati Uniti.
Baj, Fontana, Pistoletto, Boetti e Merz saranno gli interpreti dei suoi film per parecchi anni.
Con Baj Nespolo frequenta a Parigi Man Ray il quale gli darà un testo per un film “Revolving Doors” film che Nespolo realizzerà nel 1982.
In Francia fin dagli ultimi Anni Sessanta Nespolo frequenta Ben Vautier con il quale realizza mostre e performances.
Sempre nel ’68 realizza a Torino una serie di mostre e incontri sotto il titolo “Les mots et les choses” dove con Ben, Boetti ed altri autori dà luogo ad una serie di eventi e concerti Fluxus che mai erano stati prodotti in Italia.
L’incontro con gli artisti del New American Cinema: Jonas Mekas, Warhol, Yoko Ono, P. Adam Sitney dà il via alla nascita del cinema di ricerca in Italia. Nespolo ne è il promotore come documenta la mostra “Nespolo Cinema / Time after Time” al Museo del Cinema di Torino.
I film di Nespolo sono stati proiettati e commentati nei maggiori Musei del Mondo. In Francia il Centre Pompidou realizza proiezioni dal titolo “Nespolo – le cinema diagonal” le Musée National du Cinéma di Parigi propone per due volte proiezioni dei suoi film.
Nespolo è attualmente la più “alta autorità” patafisica italiana. Ha fondato con Baj l’Istituto Patafisico Ticinese e si onora di avere il proprio diploma firmato da Raymond Quenau che aveva apprezzato un piccolo libro di logica formale scritto da Nespolo e stampato dall’Editore Schwarz nel 1968.
Ha esposto con intensità in gallerie e Musei in Italia e nel Mondo.
Plinio Martelli artista torinese nato nel 1945, dopo essersi diplomato all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino diviene docente di fotografia e discipline artistiche. La sua ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea, pone da sempre l’accento sulla “Condizione Umana”, con particolare attenzione sulla trasformazione antropologica e comportamentale.
Artista eclettico, che utilizza differenti forme espressive, spazia infatti dal cinema alla scultura dal disegno alla fotografia, pur rimanendo sempre fedele, a un suo preciso modo di comunicare. Sarà proprio questa sua attenzione e propensione verso la trasformazione antropologica che lo porterà ad indagare e ad utilizzare la metafora del tatuaggio. Quest’ultimo non viene inteso come velleità estetica, anzi va ad evidenziare un forte disagio un malessere da cui scaturisce una fuga dalla realtà, con il conseguente rifugio nel sogno, nella fantasia, nella memoria.
È con forza che il tatuaggio si conferma in modo indiscusso come opera d’arte, anche per questa sua caratteristica di essere al di fuori delle regole. Se è vero infatti che il pittore sceglie con accuratezza la tela su cui andrà ad esprimersi, chi decide di tatuarsi usa il proprio corpo, che e’ la superficie su cui elaborare e al tempo stesso riportare quella sofferenza incidendola in modo indelebile su se stessi.
Le immagini provengono da archivi giudiziari, da persone ai margini, che hanno impresso sulla pelle immagini di figure mitiche, scene violente o religiose, simboli esoterici ed erotici.
Plinio Martelli le reinterpreta e la trasforma dando nuovi colori a base di albumine che vengono totalmente assorbite dall’emulsione fotografica, tanto da rendere impercettibile l’intervento e donando vivacità’ a gigantografie in bianco e nero.
Il tatuaggio appare come un racconto, vera trasposizione di un dramma visto attraverso una lente d’ingrandimento, che l’artista impreziosisce anche attraverso i colori, ne potenzia e ne estremizza i significati dilatandone cosi margini.
Una Body Art intrinseca d’Arte Comportamentale che supera di gran lunga l’estetica, per lasciare il posto ad un indagine antropologica e psicologica.
Lo stesso Martelli nel libro il tatuaggio come arte che pubblicò nel 1980: Colui che opera su di sé con un tatuaggio esegue un’ operazione estetica diretta, inoltre opera sempre spinto da esperienza che lascia un segno a livello emozionale, per cui il tatuaggio diventa la rappresentazione visibile e indelebile di stati emotivi accaduti o desiderabili, con i quali il soggetto vuole essere sempre a contatto. Questa operazione viene fatta dall’uomo sull’uomo, considerando il proprio corpo come un supporto che entra in simbiosi totale e permanente con le immagini sopra tatuate, anzi avviene in più un’ identificazione reciproca...
Bertozzi & Casoni è una società fondata nel 1980 a Imola da Giampaolo Bertozzi (Borgo Tossignano, Bologna, 1957) e da Stefano Dal Monte Casoni (Lugo di Romagna, Ravenna, 1961).
La loro prima formazione artistica avviene all'Istituto Statale d'Arte per la Ceramica di Faenza in un clima dominato da un post-informale “freddo” allora in voga. Di maggiore interesse, per loro, sono invece le sculture figurative di Angelo Biancini, con il quale Bertozzi collabora nello studio all'interno della scuola, l'arte decorativa di Gianna Boschi e il radicalismo concettuale di Alfonso Leoni.
Appena terminati gli studi, Bertozzi e Casoni frequentano l'Accademia di Belle Arti di Bologna, fondano una società e partecipano alle manifestazioni che tentano di mettere a fuoco i protagonisti e le ragioni di una “nuova ceramica”.
Abilità esecutiva e distaccata ironia caratterizzano già le loro prime creazioni in sottile maiolica policroma. Importante è la collaborazione (1985-1990) con la Cooperativa Ceramica di Imola dove lavorano come ricercatori nel Centro Sperimentazioni e Ricerche sulla Ceramica. Nel 1987 e 1988 collaborano con “K International Ceramics Magazine” di cui realizzano anche le immagini di copertina. Negli anni Ottanta il virtuosismo esecutivo raggiunge nuovi apici tra opere scultoree, intersezioni con il design e realizzazioni di opere di affermati artisti italiani ed europei: Arman e Alessandro Mendini, tra gli altri.
Nel 1990 creano fontane e grandi sculture per un intervento urbano a Tama, un nuovo quartiere di Tokyo. Del 1993 è il grande pannelloDitelo con i fiori collocato su una parete esterna dell'Ospedale Civile di Imola. Negli anni Novanta emerge nel loro lavoro un aspetto maggiormente concettuale e radicale: la ceramica assume dimensioni sempre maggiori fino a sconfinare nell'iperbole linguistica e realizzativa.
La critica e le più importanti gallerie d'arte nazionali e internazionali si interessano al loro lavoro. Le loro sculture - simboliche, irridenti e pervase da sensi di attrazione nei confronti di quanto è caduco, transitorio, peribile e in disfacimento - sono diventate icone internazionalmente riconosciute di una, non solo contemporanea, condizione umana. L'ironia corrosiva delle loro opere è sempre controbilanciata da un inossidabile perfezionismo esecutivo. Tra surrealismo compositivo e iperrealismo formale, Bertozzi e Casoni indagano i rifiuti della società contemporanea non escludendo quelli culturali: da quelli del passato a quelli delle tendenze artistiche più vicine. Icone quali la Brillo box passata al vaglio della Pop Art o le lattine di Merda d'artista di Piero Manzoni trovano, in una raffinata versione ceramica che ne indaga l'obsolescenza e il degrado, sia i segni di un tempo irrimediabilmente trascorso sia un congelamento in assetti che, per converso, li affidano a destini davvero immortali.
Dal 2000, Bertozzi e Casoni abbandonano l'uso della maiolica per privilegiare, in una sorta di epopea del trash, una più ampia serie di tecniche e di materiali ceramici di derivazione industriale, variandone i processi e le composizioni.
La fisica presenza degli oggetti e delle figure messi in rappresentazione attrae per complessità ideativa ed ellittici riferimenti, la suggestione aumenta con la scoperta del materiale utilizzato e della perfetta mimesi raggiunta e, infine, emergono le implicazioni formali, anche pittoriche, di opere prepotentemente figurative ma, in fondo, concettuali e astratte. Una versione contemporanea del tema della vanitas che ha visto grandi maestri del passato comprimere nello spazio di una tela fulgidi fiori, frutta, cibi e simbolici animali. Allusioni a una impermanenza (memento mori) che Bertozzi e Casoni, maestri del dubbio e del “forse” ribaltano in una ricerca di bellezza; una bellezza rinvenibile anche nell’oggetto più negletto e martoriato.
Virtù di un’arte che, con ironia, “rifacendo” nobilita.
Luca Alinari nasce a Firenze nel 1943. Autodidatta, esordisce nel 1968 con la sua prima esposizione personale presso la Galleria Inquadrature di Firenze. Durante gli anni Settanta avvia una serrata ricerca sul libero accostamento di oggetti e figure all'interno di atmosfere fantastiche e sospese, sulla suggestione delle ricerche Neodada e della Pop Art. In questi anni sperimenta diverse tecniche pittoriche, nelle quali coniuga colori fluorescenti, decalcomania, collage, trasposizioni fotografiche. Tra il 1972 e il 1973 espone nelle principali gallerie private di Firenze, presentato dal poeta e amico Alfonso Gatto. Nel corso degli anni Ottanta ottiene i primi riconoscimenti ufficiali con la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1982 e alla XI Quadriennale romana nel 1985. Nel 1990 ha l'onore di dipingere il "Cencio" per il Palio di Siena, il drappo che viene assegnato al vincitore. Si afferma sulla scena artistica nazionale nel 1993, in occasione della mostra antologica allestita presso Palazzo Reale di Milano dove presenta un importante nucleo di opere che ripercorre il suo intero percorso artistico. Concludono questa rassegna i paesaggi fantastici della maturità, caratterizzati da una cromia vivace e brillante e da una tecnica pittorica di grande originalità che combina stesure materiche a raffinate campiture di colore levigato e trasparente. A Firenze nel Corridoio Vasariano degli Uffizi, dal 1999 è esposto, acquistato dal Museo stesso, il suo Autoritratto . Nel 2009 espone una personale di 45 opere al Beijin Today Art Museum di Pechino, al Centro per l'Arte Contemporanea SunShine di Shanghai ed al Museo di Arte Contemporanea di Kun Shan, città satellite di Shanghai. Nel 2011 a Città di Castello espone una personale intitolata “Gelo”. Il nome trova ispirazione da una citazione dello scrittore Franz Kafka che Alinari parafrasa così: “Un quadro è un'ascia per spaccare il gelo che è dentro di noi”. Alinari alla stregua dello scrittore, attribuisce il compito del disgelo alle sue ultime opere, che rispetto a quelle degli anni Sessanta e Settanta, si colorano del vigore del rosso, quasi a voler destare chiunque le osservi, perché sia consapevole di ciò che il mondo sta vivendo: il gelo. Sempre nel 2011 ha disegnato il logo dei Mondiali di Ciclismo 2013, per la prima volta con gare in Toscana. Il logo, nella spiegazione dell'Autore, nelle linee essenziali di una bicicletta, con il telaio che diventa l'orlo di una collina, racchiude un profilo rinascimentale, un accenno di paesaggio italiano con gli immancabili cipressi, ma anche la razionalità della linea e della nuova prospettiva umanistica. Nel settembre 2011 presso il Palazzo Medici del Vascello di Asti viene ospitata una importante personale dell'artista nella quale presenta le sue nuove espressività figurali con le "regine dei sogni”, creature feeriche che emergono dai paesaggi incantati e trovano spazio sulla copertina del magazine Art & Wine n. 20, promotore della mostra curata da Fabio Carisio. Il 12/6/2014 viene premiato allo Spoleto Festival Art. Il 28/9/2014 riceve il Premio Nazionale Castruccio insieme a Giorgietto Giugiaro ed altri esponenti della cultura e della medicina.Il 10 giugno 2015 riceve il premio “Filo d'argento” per la pittura, la medaglia Florentia Mater realizzata dal maestro Roberto Ciabani e fusa in bronzo dalla Fonderia il Cesello; insieme ad altre eccellenze come Sergio Zavoli (giornalismo), Lindsay Kemp (danza), Don Backy (musica), Francesco Gurrieri (architettura),Marga Nativo già prima ballerina del Maggio Musicale, Rino Marchesi giocatore della Fiorentina, don Silvano Nistri ed il fotografo Sergio Bonamici..
Umberto Mariani è un artista nato nel 1936 a Milano città dove vive e lavora. Dopo essere stato allievo prediletto di Achille Funi, che lo vuole con sé per realizzare la cappella di San Carlo nella Basilica di Sant’Angelo a Milano e la pala di San Giuseppe nella Basilica di San Pietro a Roma, e dopo aver attraversato una fase espressionista, ispirata ai modi di Permeke, Mariani passa presto a confrontarsi con il linguaggio più in voga negli anni sessanta, la Pop Art, anche se nei suoi quadri, in cui compaiono le immagini nitide di oggetti che sfiorano l’allusione erotica, come lunghi guanti o stivali lucenti, sembrano alludere piuttosto ad una atmosfera surrealista. Alla fine Mariani si interessa solo alle pieghe dei tessuti; Mariani confessa di aver avuto una sorta di illuminazione quando ha scoperto che il panneggio, di solito usato per nascondere qualcosa, è in realtà il soggetto principale della storia dell’arte dai greci ad oggi. Inoltre i suoi panneggi sono realizzati in piombo, e il piombo, nell’alchimia, ha un significato ben preciso: è il metallo di Saturno, della notte, l’opposto dell’oro. Il piombo contiene un pensiero non espresso, che l’artista, diventato una sorta di sacerdote, cerca di evocare: la verità delle cose, sembra dirci, non si fa conoscere attraverso il linguaggio, ma solo attraverso l’esperienza; e Umberto Mariani predilige l’esperienza artistica.
Michelangelo Pistoletto nasce a Biella nel 1933. Inizia a esporre nel 1955 e nel 1960 tiene la sua prima personale alla Galleria Galatea di Torino. La sua prima produzione pittorica è caratterizzata da una ricerca sull’autoritratto. Nel biennio 1961-1962 approda alla realizzazione dei Quadri specchianti, che includono direttamente nell’opera la presenza dello spettatore, la dimensione reale del tempo e riaprono inoltre la prospettiva, rovesciando quella rinascimentale chiusa dalle avanguardie del XX secolo. Con questi lavori Pistoletto raggiunge in breve riconoscimento e successo internazionali, che lo portano a realizzare, già nel corso degli anni Sessanta, mostre personali in prestigiose gallerie e musei in Europa e negli Stati Uniti. I Quadri specchianti costituiranno la base della sua successiva produzione artistica e riflessione teorica. Tra il 1965 e il 1966 produce un insieme di lavori intitolati Oggetti in meno, considerati basilari per la nascita dell’Arte Povera, movimento artistico di cui Pistoletto è animatore e protagonista. A partire dal 1967 realizza, fuori dai tradizionali spazi espositivi, azioni che rappresentano le prime manifestazioni di quella “collaborazione creativa” che Pistoletto svilupperà nel corso dei decenni successivi, mettendo in relazione artisti provenienti da diverse discipline e settori sempre più ampi della società. Tra il 1975 e il 1976 realizza nella Galleria Stein di Torino un ciclo di dodici mostre consecutive, Le Stanze, il primo di una serie di complessi lavori articolati nell’arco di un anno, chiamati “continenti di tempo”, come Anno Bianco (1989) e Tartaruga Felice (1992). Nel 1978 tiene una mostra nel corso della quale presenta due fondamentali direzioni della sua futura ricerca e produzione artistica: Divisione e moltiplicazione dello specchio e L’arte assume la religione. All’inizio degli anni Ottanta realizza una serie di sculture in poliuretano rigido, tradotte in marmo per la mostra personale del 1984 al Forte di Belvedere di Firenze. Dal 1985 al 1989 crea la serie di volumi “scuri” denominata Arte dello squallore. Nel corso degli anni Novanta, con Progetto Arte e con la creazione a Biella di Cittadellarte-Fondazione Pistoletto e dell’Università delle Idee, mette l’arte in relazione attiva con i diversi ambiti del tessuto sociale al fine di ispirare e produrre una trasformazione responsabile della società. Nel 2003 è insignito del Leone d’Oro alla Carriera alla Biennale di Venezia. Nel 2004 l'Università di Torino gli conferisce la laurea honoris causa in Scienze Politiche. In tale occasione l'artista annuncia quella che costituisce la fase più recente del suo lavoro, denominata Terzo Paradiso. Nel 2007 riceve a Gerusalemme il Wolf Foundation Prize in Arts, “per la sua carriera costantemente creativa come artista, educatore e attivatore, la cui instancabile intelligenza ha dato origine a forme d'arte premonitrici che contribuiscono ad una nuova comprensione del mondo”.
Nel 2010 è autore del saggio Il Terzo Paradiso, pubblicato in italiano, inglese, francese e tedesco. Nel 2011 è Direttore Artistico di Evento 2011 – L'art pour une ré-évolution urbaine a Bordeaux. Nel 2012 si fa promotore del Rebirth-day, prima giornata universale della rinascita, festeggiata ogni anno il 21 dicembre con iniziative realizzate in diversi luoghi del mondo. Nel 2013 il Museo del Louvre di Parigi ospita la sua mostra personale Michelangelo Pistoletto, année un - le paradis sur terre. In questo stesso anno riceve a Tokyo il Praemium Imperiale per la pittura. Nel 2014 il simbolo del Terzo Paradiso è stato installato nell'atrio della sede del Consiglio dell'Unione Europea a Bruxelles durante il semestre di presidenza italiana. Nel maggio del 2015 la Universidad de las Artes de L'Avana gli conferisce la laurea honoris causa. Nell'ottobre dello stesso anno realizza una scultura monumentale, intitolata Rebirth, nel parco del Palazzo delle Nazioni di Ginevra, sede dell'Organizzazione delle Nazioni Unite.
”Plastica italiana” è una mostra collettiva di opere di Gianni Cella, Francesco de Molfetta, Beatrice Gallori, Marco Lodola, Umberto Mariani, Armando Marocco e Omar. La mostra è curata da Valerio Dehò e Fabio Migliorati.
La plastica vanta una storia anche italiana poiché è Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963, assieme al tedesco Karl Ziegler, che inventa e perfeziona il polipropilene, una sostanza dalle immense possibilità d’uso nel vivere di tutti i giorni. Ma gli artisti arrivano spesso prima degli altri a intuire nuove possibilità. Ne è l’esempio il caso di Alberto Burri, il quale, già nel 1957, preferisce la plastica alla tela. A questo derivato del petrolio, a questo elemento ormai così comune, si attribuisce il merito d’aver cambiato la vita contemporanea. Nel 1963 Enrico Baj usa i mattoncini di plastica Lego; altri più o meno della stessa generazione come Dadamaino, Carla Accardi, Giuseppe Chiari, Franco Costalonga, Armando Marrocco sfruttano le potenzialità del nuovo materiale. Tino Stefanoni, nel 1970, alla Biennale di Venezia, “stampa” i suoi oggetti seriali in diretta, offrendoli al pubblico.
La plastica appare allora come blasfema, non ortodossa rispetto a materiali nobili come il marmo o il bronzo - sembra così innaturale che Piero Gilardi, ancora negli anni Settanta, adopera prima la gommapiuma e poi il polistirolo per ricreare un effetto “Eden artificiale”. Umberto Mariani la sceglie per scandire le tappe dei suoi viaggi attorno al mondo ed Enrica Borghi parte dall’idea ecologica del riciclo dei materiali. Gianni Cella, con i Plumcake, uno dei gruppi italiani fondamentali per capire gli anni Ottanta, riempie le gallerie d’arte di personaggi plastici dal punto di vista dell’idea di un arte “finta”, smagliante d’ironiche banalità. Marco Lodola realizza una vera e propria città della luce, una Las Vegas di icone ridenti, Davide Nido usa materiali plastici diversi, tra optical e pattern painting, mentre Francesco de Molfetta riparte dal Pop per creare un universo ironico, fantastico, visionario. In chiave astratta, Beatrice Gallori lavora con i polimeri per determinare forme instabili e aperte, e Terenzio Eusebi cerca le sfumature del bianco in lavori monocromatici che mettono insieme il caso e la razionalità. Nando Crippa tende al polistirolo per le sue figure classiche ma fuori scala e Sergio Cabrini, con i suoi ominidi proliferanti, occupa lo spazio comunicando con i colori, fino alle icone contemporanee di Omar Ronda, ai suoi genetic fusion della società consumistica che non tramonta mai. Dal petrolio insomma sgorga la vita, e anche l’arte.
“Plastica italiana” è una mostra complessa; strutturata attorno a un materiale difficile proprio perché appare semplice e quotidiano. La prima ricognizione attorno a un atteggiamento degli artisti verso una novità che rimane al passo con i tempi, senza smettere di incuriosire per il suo eclettismo e la sua attualità.
La Pop Art nasce negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50 con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns. Ma la sua esplosione avviene soprattutto nel decennio degli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964. I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein ed altri. Ed in ciò si definisce anche una componente fondamentale di questo stile: essa appare decisamente il frutto della società e della cultura americana. Cultura largamente dominata dall’immagine, ma immagine che proveniva dal cinema, dalla televisione, dalla pubblicità, dai rotocalchi, dal paesaggio urbano largamente dominato dai grandi cartelloni pubblicitari. La pop art ricicla tutto ciò in una pittura che rifà in maniera fredda ed impersonale le immagini proposte dai mass-media. Si va dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist. La pop art documenta quindi in maniera precisa la cultura popolare americana (da qui quindi il suo nome, dove pop sta per diminutivo di popolare), trasformando in icone le immagini più note o simboliche tra quelle proposte dai mass-media. L’apparente indifferenza per le qualità formali dei soggetti proposti, così come il procedimento di pescare tra oggetti che apparivano triviali e non estetici, ha indotto molti critici a considerare la pop art come una specie di nuovo dadaismo. Se ciò può apparire in parte plausibile, diverso è il fine a cui giunge la pop art.
In essa infatti è assente qualsiasi intento dissacratorio, ironico o di denuncia.