Massimo Kaufmann (1963) è nato a Milano dove vive e lavora. Esponente di rilievo della generazione artistica affermatasi nei primi anni ‘90 a Milano, la sua pittura si inserisce in un ambito astratto: mappe, reticoli come città che si sviluppano a dismisura in esplosioni di colore. Per mezzo di un linguaggio allusivo, meno diretto, caratterizzato da colorate tessiture astratte – dalle infinite possibilità di interpretazione – i dipinti rimandano ad una dimensione altra. Il percorso artistico di Massimo Kaufmann è piuttosto atipico. Iniziato nella seconda metà degli anni ‘80, si è confrontato con una situazione di ritorno alla pittura in reazione a decenni di linguaggi astratti e concettuali, e ha accettato la sfida. Nei suoi primi lavori sui Pesi, 1986-7, collocati su mensole di vetro, o nell’imponente Weltanshauung, 1988 si notava l’impiego dell’oggetto (i pesi, le mensole, il metro) come veicolo di significati teorici, ma anche il riferimento agli snodi salienti dell’iconografia universale. Si trattava di una complessa mediazione tra simboli di portata imponente e forme espressive tipicamente contemporanee. In questa linea il lavoro di Kaufmann è andato sviluppandosi in grande libertà, impiegando l’installazione, o persino la scultura in bronzo. In questo senso, l’impiego della pittura sembra un’ennesima forma di ri-mediazione tra esigenze apparentemente opposte: produrre in forma tangibile un pensiero astratto e simbolico. Che rischia di sovvertire le premesse teoriche del lavoro di Kaufmann: non appena scendono in campo cose come “i valori cromatici”, “il segno˜, o addirittura “il tratto, la pennellata˜, eccoci presi da un piacere estetico atavico, irriducibile a qualunque ragionamento (“Che bei colori!˜ è l’esclamazione a cui non si sfugge di fronte ad essa), trovandoci di fronte all’abbandono di ogni forma simbolica e di ogni strategia linguistica e tuffandoci nella pura e semplice esperienza estetica immediata. Tuttavia, immergendoci in questi lavori, passiamo rapidamente oltre l’illusoria sensazione di diletto estetico. Se continuiamo a fare la cosa più naturale e insieme più necessaria di fronte a un quadro, che è, come diceva Federico Zeri, guardarlo, capiamo che queste opere richiedono tempo. Ma non un tempo qualunque: l’ˆubi consistam” dei suoi quadri sta nell’esigenza di esercizio controllato di una tecnica compositiva. Potremmo dire che si tratta di una serie di “esercizio˜, nei molti sensi della parola, ottenuto applicandosi con modestia, pazienza, fatica (tutte cose che implicano un grande investimento di tempo) alla disciplina della pittura.